L’INFIDA TANA DEI DISPERATI DI COMO

Provate a immaginare di essere stranieri, appena arrivati a Como ed in cerca di un domicilio. Ma anche italiani, che hanno necessità di trovare una casa, ma senza avere la possibilità di sborsare, subito, cifre importanti per deposito cauzionale, mensilità anticipate.

Provate a pensare di aver trovato un lavoro, ma – di questi tempi – soltanto a tempo determinato, rinnovato poi rinnovato, poi rinnovato…

Provate a pensare che avete risposto a decine di annunci di abitazioni, per voi possibili, ma purtroppo inaccessibili per la mancanza di un contratto a tempo indeterminato, che avrebbe dato la possibilità di ottenere la residenza. Il gatto che si morde la coda: non potete avere la residenza perché non avete il contratto. E non potete avere il contratto di lavoro se non avete la residenza.

Il tam tam tra le persone disperate che hanno solo bisogno di un luogo dove risiedere, finalmente sfocia in una comunicazione piena di speranza: alle porte di Como, su una collinetta che neanche si distingue tra il verde degli alberi, c’è un campeggio. Là affittano i bungalows, senza farsi troppi problemi per la durata del contratto: per tutti c’è la richiesta di un deposito e di una mensilità anticipata. IL deposito deve dare la certezza al gestore che vi fermerete almeno quattro mesi, altrimenti dovrà conteggiarvi la permanenza come soggiorno in campeggio, con una tariffa giornaliera.

Correte a vedere, entrate in questo posto in mezzo agli alberi che si chiama “No Stress”. Subito si presenta una teoria di casette, piccole in legno, tipici bungalows da vacanze, che si perde nelle stradine interne alla struttura. Qualche casa in vetroresina, ma sempre piccola. È comunque una tappa raggiunta, ora sapete dove potrete dormire. Da dove partirete ogni mattina per recarvi al lavoro e dove tornerete per riposare.

Nelle casette ci sono due stanze e un bagnetto. In tutto qualche metro quadro riempito da un paio di letti. Niente cucina, ci si improvvisa nello spazio esterno con un fornello elettrico. Per il riscaldamento, in una stanza è installato un condizionatore, che usato come pompa di calore, fornisce calore a sufficienza.

Potete pensare ad un grosso sospiro di sollievo. Si riparte!

E invece…

Dopo qualche giorno, d’improvviso la fornitura del gas si interrompe. Chiamati i gestori, vi informano che per problemi tecnici, le autorità hanno tolto la fornitura. Sarà problema per qualche giorno, o settimana. O mese, prima di poter ripristinare lo stato precedente. Si sta senza acqua calda, la doccia in pieno inverno è obbligatoriamente fredda. Si risolve, si cerca un luogo dove potersi recare a fare una doccia, e si va avanti. Vi guardate intorno. Dalle cinquanta (e oltre) casette, gli ospiti escono esterrefatti, parlano tra di loro, decidono che non ci sono alternative se non quella di accettare e sperare che il problema si risolva.

Ma le sorprese non finiscono. Qualche giorno dopo, uno scarno comunicato della “direzione” informa i residenti che, a causa di un’ordinanza comunale, la struttura deve chiudere e voi dovete lasciarla al più presto.

Nonostante il contratto mensile prorogato per quattro mesi, nonostante il deposito a loro mani, nonostante il vostro estremo bisogno di un alloggio in pieno inverno, nonostante…

I residenti si incontrano nelle stradine, si preoccupano, si lamentano. Non ci sono soltanto persone che hanno contratti di locazione: nel campeggio giungono, ogni sera, turisti in vacanza, ospiti in visita alla città di Como, perla della Lombardia, citata in tutto il mondo come una specie di paradiso.

Qualcuno si mobilita, altri si accodano e confermano il loro appoggio. Si chiama il sindaco di Como, che dapprima non risponde, poi con un laconico messaggio tenta di rassicurare promettendo di attivare le giuste procedure. Per fare cosa, esattamente? Niente. Si avvisano i giornali locali, si parla con le televisioni. Dapprima il caso non viene preso in considerazione, poi – quando si comprende che il problema è ben più grande, anche perché riguarda almeno cinquanta persone che resterebbero all’addiaccio – qualche articolo compare sulle testate della provincia. Si invia una richiesta all’assessore per il turismo, si chiede comprensione ad aiuto.

Le informazioni che – via via – arrivano, sono allarmanti. La struttura non ha l’autorizzazione ad esercitare. I gestori presenti non sono quelli ai quali era stata concessa la licenza e non hanno i requisiti per ottenerla. Non solo: il terreno su cui insiste il campeggio, appartiene al Comune di Como, che una volta appaltato ai gestori, non se n’è più preoccupato. Non si è preoccupato di verificare che l’autorizzazione era valida solo da aprile a ottobre, e invece erano anni che il camping funzionava in questo modo. Non si è preoccupato di inviare i vigili sanitari per verificare le condizioni igieniche, né alcuno ha ritenuto di effettuare dei controlli sui cinquanta scaldabagni a gas, sulle tubature, sugli impianti elettrici. Nessuno. Ci si è accorti che qualcosa non andava, dopo che un ospite è stato trovato esanime della sua casetta, stroncato da un’esalazione di biossido di carbonio. Portato in elicottero al centro di soccorso di Niguarda, il povero ospite è ancora tra la vita e la morte. In quel momento, erano intervenuti i vigili del fuoco, l’azienda sanitaria, la polizia municipale.

Si scopre, però, che in un passato non troppo lontano, qualcuno si era già accorto di quelle anomalie, e aveva tentato di chiudere la struttura. Ma la presenza di quindici residenti aveva consigliato di… far finta di niente, e lasciare che le cose andassero per il verso loro.

In questo modo, si dava al gestore (non autorizzato né responsabile di alcunché) il tacito consenso di continuare con la sua politica folle di occupazione. E i contratti si sommavano ai contratti, il campeggio godeva di ottima salute (solo dal punto di vista occupazionale, perché da un primo sguardo, si può immediatamente scorgere che il tetto del ristorante-bar, è in amianto. Il Comune non se n’è accorto, nessuno ha rimosso quell’ondulato malefico.)

Quanti reati si possono configurare in questa situazione? La collina “del disonore” pullula di ospiti e di conigli, che crescono e si moltiplicano all’infinito, fornendo all’ambiente un aspetto rurale. Liberi tra i vialetti, si accoppiano, figliano, vivono beatamente (e forse in qualche caso finiscono pure in pentola), tanto nessuno controlla.

La parola d’ordine tra i residenti è: non ce ne andiamo. Neppure uno di noi deve lasciare questo luogo: abbiamo pagato, abbiamo contratti regolari, non ci sono più problemi di sicurezza, ora che il gas è stato scollegato. La “direzione” invita i residenti a restare, convinti che passerà anche questa tempesta.

Ieri, al rientro dal lavoro, i residenti si sono trovati un muro di vetture della polizia municipale. Una decina di agenti che bussava alle casette e parlava con gli alloggiati. Al termine, un ordine perentorio: entro domani tutti devono andare fuori. Nessuno può restare.

Né giovani baldanzosi all’inizio della loro vita lavorativa, né mogli speranzose di cominciare una nuova vita, né bimbi che hanno giocato nei vialetti del campeggio. Né persone anziane, né disabili, né persone in difficoltà. L’ordine riguarda tutti, senza la minima pietà né rispetto.

IL sindaco, dal suo scranno sopraelevato ha ben altro di cui occuparsi, che non di un posto nascosto laggiù, al confine della città, dove un manipolo di persone disperate si affanna per sopravvivere.

La spesa deficiente.

Si dice, e pare che sia proprio vero, che gli anziani stiano diventando una maggioranza, in Italia. Io ormai faccio parte della categoria, anche se fingo indifferenza. Purtroppo, a richiamarmi alla realtà sono “i dolori”, quelli che sentivo raccontare fin da piccolo dai nonni, dalle zie, e poi dai genitori. Un pacchetto “tout court”, con il quale ci si riferiva a quello stato fisico che ti coglie al risveglio e ti costringe a soste continue, posture rilassanti, massaggi estemporanei allo scopo di iniziare la giornata. E piano piano, il corpo riprende le sue funzioni, ci si abitua a convivere con le fitte, gli acciacchi e si va avanti. Diceva l’amatissimo Enrico Tedeschi: “Se, passati i quarant’anni, ti svegli senza un dolore, vuol dire che sei morto.”  Io sono vivo, e me ne accorgo quotidianamente.

Di tutti gli affronti che dobbiamo subire, ce n’è uno, particolarmente odioso, del quale ho già parlato in passato. Fare la spesa è diventata una tortura. Se non si vive in città, con i negozi alimentari proprio sotto casa (o un supermercato di quartiere), andare a rifornirsi per la propria sopravvivenza è enormemente faticoso, al limite dell’impossibile. Io abito in un paese che conta un supermercato centrale ed uno raggiungibile in macchina in tempi brevi. In macchina, ovviamente, perché a piedi si rischia di farsi arrotare appena scesi dal marciapiedi. Possiedo la macchina, per fortuna, e perfino la moto e il monopattino. Questo mi consente di raggiungere il luogo in tempi brevi. Ma il problema è tutt’altro che risolto. Il supermercato in paese e quello periferico, hanno prezzi molto elevati, certamente non sono alla portata della pensione percepita dalla maggioranza degli anziani. Cosa si può fare? Andare nei grandi centri commerciali, che occupano spazi immensi e che sono raggiungibili con i propri mezzi (o – in qualche caso – con autobus gratuiti creati per lo scopo). Arrivati agli ingressi, inizia il pellegrinaggio. L’entrata si trova alla fine di un immenso parcheggio, da percorrere a piedi. Ci si munisce di carrello e si inizia a fare gli acquisti. Il percorso è, ormai, quasi identico per tutti i supermercati. Si parte con buonumore, allettati dai prezzi di frutta e verdura e si prosegue per i corridoi. Tanti, lunghi, infiniti. Ci sono dei cartelli indicatori, all’inizio delle corsie, che però indicano proprio poco. Bisogna proprio percorrerli tutti: avanti e indietro, con l’occhio che deve scorgere, notare, individuare il prodotto cercato. Il passo diventa pesante, bisogna fermarsi ogni tanto. Ho sofferto di dolori ai piedi, alle gambe, alla schiena. Ogni passo era una coltellata, ma – una volta entrati nel meccanismo – non c’è nulla da fare: bisogna proseguire. Ti viene voglia di mollare il carrello, hai trovato soltanto un paio di cose, devi ancora fare la spese, altrimenti il tuo viaggio e la fatica sono stati inutili. “Tacere bisognava e andare avanti” recitava la canzone del Piave. Ma quelli erano giovani fanti, noi vecchi pensionati! “Ora lascio tutto qui e me ne vado!”, ti viene da dire. Non risparmieresti nemmeno un passo. L’uscita è lontana dall’ingresso, bisogna raggiungerla.  Riprendi il cammino. Non trovi quello che cerchi, gli scaffali sono a quattro ripiani, fitti di merci. L’intenzione dei negozianti è quella di farti venire in mente che puoi acquistare altre cose alle quali non avevi pensato. All’Ikea, maestri della maratona forzata tra i padiglioni, hanno finalmente capito che le persone rischiano di stramazzare al suolo, ed hanno indicato (molto di nascosto) delle scorciatoie. In questi grandi supermercati, invece, bisogna proprio percorrere tutto il negozio per raggiungere l’uscita. L’indifferenza di chi impone anche agli anziani questi percorsi obbligati faticosissimi, è veramente da sottolineare. Sarebbe sufficiente mettere, magari nei corridoi centrali, delle panchine. Quelle doppie, schiena contro schiena. Non occupano troppo spazio, ma permettono a chi ne ha bisogno di fermarsi un po’ a riposare. Ma non servono solo per quello! Una pausa può essere utile per fare il riassunto di ciò che si è acquistato e di ciò che manca ancora. Può anche essere una ottima ragione per sorseggiare un caffè, distribuito da una di quelle macchinette che con qualche cent ti consegnano qualsiasi bevanda. E poi riprendere il cammino, spingendo il carrello sempre più pesante, diventerebbe meno faticoso. No, non ci hanno pensato. Gli spazi sono destinati all’esposizione ed alla vendita. Tutti. Quando finalmente si concludono gli acquisti, bisogna accodarsi alle casse. Generalmente ce ne sono pochissime aperte, si cerca di risparmiare sul personale. Ci sono le opportunità delle casse automatizzate, ma in qualche supermercato sono destinate soltanto ai portatori di cestini. Qualcuno ha deciso di mettere all’ingresso delle pistole per leggere i codici, via via che gli articoli si ripongono nel carrello. E’ veramente poco probabile che gli anziani utilizzino questi mezzi: la cassa con la coda sembra l’unica soluzione possibile. Di nuovo fermi, in piedi, in attesa. E poi bisogna mettere gli articoli sul ripiano mobile, passare oltre la cassa per raccogliere ciò che la cassiera ha già passato allo scanner, e farlo in fretta perché la coda freme, dopo di voi. Insacchettare alla velocità della cassiera è un’impresa impossibile. Di solito cerco di affrettarmi, ma l’ultimo biip della cassa, accompagnato dalla dichiarazione della cassiera che declama la cifra che devi pagare, mi mette ansia. La coda si innervosisce appena metto la mano in tasca, in cerca del portafogli. Si sente crescere il fastidio, cerco di velocizzare, ma sul banco ci sono ancora molti articoli da mettere nei sacchetti. Pago con carta, dico deciso, lanciando un’occhiata di sfida alle persone che attendono. Capita di frequente che ci siano degli anziani che aprono il borsellino e cominciano a contare le monetine fino a raggiungere la cifra richiesta. Io pago in fretta, appoggio la carta sul lettore e sento lo scatto del cassetto che si apre sulla pancia della cassiera. Un lungo biglietto mi viene allungato, con l’immancabile offerta sconto, valida però solo al prossimo acquisto. In certi supermercati, il biglietto – cacciato in tasca velocemente – serve ancora ad aprire le barriere. Per fortuna alla cassa non serve. Mi ritiro nell’angolino dove la cassiera ha spinto tutto ciò che non ho ancora imbustato, con il lungo scontrino che fa capolino prepotente da una tasca. Ricomincio a imbustare, mentre nell’altro settore dello stesso banco, i clienti successivi mostrano velocità da record nel prendere i loro articoli, farli roteare in aria, precipitare nel sacchetto, e con l’altra mano porgono la carta di credito e con la punta del naso schiacciano i tasti per la conferma del codice. Io sono ancora là, sempre più piccolo, mentre la cassiera manifesta un po’ di impazienza (ma sarebbe proprio un disonore se potesse dare una mano a insacchettare?) e gli altri avventori rumoreggiano in coda. Non ci torno più, continuo a ripetere dentro di me. Con un sospirone termino il mio lavoro. Mi fanno male le gambe i piedi, le braccia. Ora dovrò spingere il carrello, che in troppi casi è azzoppato, con qualche ruota difettosa che rende la spinta uno sforzo da ginnasti, e raggiungere la macchina parcheggiata là, in mezzo a tante altre, lontana e ben nascosta tra simili.

Deposito la spesa nel bagagliaio, salgo in macchina e mi rilasso qualche minuto prima di iniziare la guida. Per fortuna, a casa c’è qualcuno che può darmi una mano a portare i sacchetti dal garage alla cucina. Mi fermo a pensare e mi gratifico con il pensiero che, in un futuro non troppo lontano, anche gli inventori di questi labirinti rumorosi ed infiniti, diventeranno vecchi, arrancheranno per le corsie e, forse, malediranno il giorno che hanno creato questi strumenti offensivi e impietosi per le persone anziane. Quel giorno, se non sarò più corpo ma pura energia, vorrei transitare un attimo nel corpo di un grosso piccione per sorvolare quel vecchio affaticato e lasciargli cadere sulla pelata, un bel po’ di fortuna…

LE CONSEGUENZE DEL COVID

Entro in panetteria, è tardi, quasi ora di pranzo.

“Buongiorno! Vorrei un chilo di pane!” Chiedo cortesemente alla commessa che mi guarda sorpresa.

“Ha l’appuntamento?” La guardo sbigottito.

“Quale appuntamento? Ho chiesto un chilo di pane!” Rispondo irritato.

“Se non ha l’appuntamento non posso servirla! Guardi, si sta formando la coda dietro di lei! Se non ha l’appuntamento, esca, che devo servire!”

La persona dietro di me alza gli occhi al cielo, mi fa cenno di spostarmi, poi con un braccio mi spinge fuori dalla fila. In un attimo, mi trovo fuori dal negozio. Sulla vetrina, un foglio A4 scritto in caratteri cubitali, avverte: Si entra solo su appuntamento.

Provo ad entrare in macelleria. Sulla porta, un cartello: Ingresso consentito solo su appuntamento. Telefonare al numero….

Decido di chiamare, voglio proprio vedere come va a finire.

“Pronto? Vorrei un appuntamento per acquistare della carne!” Dico perplesso, aspettandomi una risata liberatoria.

“Abbiamo libero il prossimo martedì, alle 15.30. Le va bene?” Risponde l’altra persona, serissima.

“Ma oggi è giovedì! Devo mangiare proprio oggi!”

“Signore, prima non è proprio possibile. Se vuole, posso fare alle 15, ma solo per un ordine breve!” Dice quella, serissima.

Chiudo la chiamata. Mi guardo intorno, le persone entrano ed escono dai negozi con indifferenza.

Comincio ad agitarmi. Passo davanti alla farmacia, un cartello è più che esplicito: appuntamento e mascherina. Inizio a correre, mi prendono le palpitazioni: in che mondo sono finito? Mi gira la testa, entro di corsa nello studio del mio dottore. In sala d’attesa ci sono persone tranquille. Si apre la porta dello studio ed esce il dottore. Scatto in piedi.

“Dottore, ho bisogno di aiuto! Mi sento male, sono in uno spaventoso stato ansioso!”

“Ma lei ha l’appuntamento?” Mi dice con tono imperativo. “No, dottore. Sto male adesso, sono venuto di corsa…”  Lo sguardo annoiato, mi sposta con un gesto del braccio.

“Ma lei si rende conto che tutte le persone, qui, hanno l’appuntamento?

“Dottore, come potevo prendere l’appuntamento se prima di mezz’ora fa stavo benissimo?”

“Voi!” Il dottore si rivolge alle persone sedute, che lo guardano. “Siete tutti stupidi, che avete preso l’appuntamento?” Qualcuno si muove a disagio sulla sedia, qualcun altro sussurra “io ho l’appuntamento”.

Il medico mi guarda, e senza la minima empatia, mi intima di uscire.

“Con questo vuole dirmi che sono IO lo stupido? Si rende conto che mi sta offendendo?” Reagisco alzando la voce.

“Se ne vada! Non abbiamo tempo da perdere! Se vuole venire, torni con l’appuntamento!” Mi grida spalancando la porta. “Devo chiamare i carabinieri?”

“Ma li chiami! Finalmente mi verrà riconosciuta la mia ragione!”

“Fuori!” Grida ancora il dottore. La gente in sala mormora, qualcuno si espone “Stiamo perdendo tempo!”

Esco dallo studio medico, mentre il dottore sbatte la porta alle mie spalle.

All’ufficio postale, le persone fanno la fila in strada. All’interno solo tre sportelli aperti, ed ognuno con un cliente.

“Entrare uno alla volta, prendere il biglietto di precedenza e tornare all’esterno in attesa che il proprio numero sia chiamato”. Dice un cartello sulla porta. Le persone allungano il collo per tentare di vedere il numero di precedenza sul pannello luminoso, poco visibile.

Prima del Covid, questo ufficio postale, unico della cittadina, faceva orario pieno. Ora è aperto solo quattro ore, e con modalità restrittive.

Il covid, questa strana malattia che ha colpito polmoni, apparato respiratorio e che ora costituisce un valido supporto per le persone che non hanno voglia di lavorare, consentendo loro di addurre scuse sanitarie che non hanno ragione di esistere. Orari di lavoro ridottissimi, servizi praticamente inesistenti.

Voglio denunciare questi maltrattamenti, voglio proprio vedere chi ha ragione. Arrivo al comando dei carabinieri. Orario continuato, c’è scritto sul cancello. Si riceve solo su appuntamento.

Mi sento disorientato, non so più a chi rivolgermi. Salto in macchina e velocemente mi dirigo al supermercato. L’ingresso è libero, nessuno chiede l’appuntamento, anche se all’interno la maggioranza dei clienti e la totalità dei dipendenti indossa la mascherina. Finalmente riesco ad acquistare ciò che mi occorre, ed anzi riempio il carrello con le provviste per tutta la prossima settimana. Chissà se in questo periodo riuscirò a prenotare qualche appuntamento, per evitare di guidare per chilometri piuttosto che scendere nei negozi sotto casa!

Ecco, questo scenario è esagerato, certamente. C’è qualcosa di vero e qualcosa di inventato. Provate a indovinare cosa c’è di falso. Panettiere? Macellaio? Beh, era facilmente comprensibile.

Ma il dottore? I carabinieri? Tutto vero. Sono stato buttato fuori dallo studio del medico perché non avevo l’appuntamento, con la minaccia di chiamare le autorità. Alla faccia del giuramento di Ippocrate, che ho ribattezzato “Giuramento di Ipocrita”. Ufficio postale? Vero, verissimo. Se non ci credete, venite a vedere la coda fuori dall’ufficio. E si lavora solo al mattino.  Perfino all’Asl, per la scelta e revoca del medico (mi pare fosse una cosa ovvia da fare, visto il comportamento del luminare) sono riuscito a raggiungere il banco dove sedevano tre donne dai modi molto energici. “Dove compilo il modulo per la revoca del medico?” “Ha l’appuntamento?” “Ma no, che non ce l’ho!” “E allora prenda l’appuntamento e poi torna. Ora però si sposti che ci sono persone in attesa!” Tutto vero. L’appuntamento si prende in farmacia, dopo aver preso appuntamento per entrare in farmacia. Un delirio.

La lunga bava lucente del Covid, ha segnato il terreno, i negozi, gli uffici. Tutti contaminati da un invisibile malattia, la burocratina, peggiore della peste che l’ha creata. Perché il Covid, prima o poi si riesce a curare, ma la burocratina prende possesso dei cervelli, blocca le articolazioni, impedisce ogni movimento. Ed è terribilmente contagiosa. I burocretini sono in aumento: si salvi chi può!

Riflessioni sulla guerra.

Guardo atterrito le immagini di Bucha. Decine di cadaveri gettati per strada, dopo aver subito le più ignobili torture, violenze e stupri. E chissà quante altre Bucha si riveleranno prima della fine di questa orrenda guerra. Gente inerme, pacifica, che non chiedeva altro che restare nelle proprie case, svolgere i propri lavori, vivere con la propria famiglia. Tutti là, disseminati nelle strade di una città mortalmente ferita.

E lui, Putin, origine e burattinaio di questo sterminio, al sicuro, circondato dai suoi fedelissimi. E’ lui che ha voluto questa guerra. Ma Putin non era sul territorio. Tra migliaia di soldati, lui non c’era. Può aver detto “uccidete tutti i civili”, “saccheggiate e violentate”, può aver detto tutto questo. Ma chi ha perpetrato queste spaventose violenze, sono i soldati, comandati dai loro superiori. Sono i ragazzi che con una incredibile violenza hanno sfondato le porte, strappato le persone alla loro vita, le hanno uccise, le hanno gettate dalla finestra, per poter avere un alloggio libero per loro. O forse neanche per questo. Per il piacere di uccidere, per sentire nella bocca il sapore del sangue, avere negli occhi le immagini di una inutile sopraffazione. Decine, centinaia di persone uccise barbaramente da ragazzi che, a quanto ci hanno raccontato, non sapevano neppure che andavano a combattere una guerra. Cosa è successo? Cosa li ha fatti diventare feroci assassini, assetati di sangue? Quale profondo odio potevano aver covato per riuscire a sterminare vite innocenti?

E una domanda mi paralizza: quanti ragazzi come questi stanno ogni giorno intorno a noi? Quanti, tra i giovani che incontriamo per la strada sorridenti, sarebbero pronti a trasformarsi in brutali assassini? E quale “Putin” di casa nostra potrebbe arrivare a invadere un Paese confinante con qualche pretesto ed iniziare un sistematico annientamento della popolazione inerme? Si comincia con una intolleranza, poi quella si trasforma in odio, minacce, aggressioni. Poi le armi si mettono a gridare, a rovesciare il loro contenuto di morte sulle persone annichilite dalla paura. La guerra è a un passo da noi. Anzi, la guerra siamo noi. Il peggio di noi, l’aspetto brutale della nostra incapacità di comunicare.

I soldati russi uccidono senza pietà, la Storia – prima o poi – chiederà loro il conto di questi massacri. Ma abbiamo ancora nelle orecchie le giustificazioni degli assassini che nella prima metà del secolo scorso, sistematicamente hanno organizzato lo sterminio e l’annientamento di milioni di persone: abbiamo agito per ordine dei nostri capi. Noi, ora, siamo spettatori di questi stermini, e ci chiediamo: i soldati possono fermare queste stragi? Possono rifiutarsi di uccidere, violentare, saccheggiare? Li vedremo alla sbarra, piangere e chiedere perdono, invocando quella pietà che non hanno mai avuto per le loro vittime innocenti? E noi, in nome di chi, di cosa, ci sentiremo in grado di giudicare, di condannare o di assolvere queste improvvisate belve umane?

Il monopattino: simpatico passatempo su ruote o mezzo di trasporto infernale?

Quasi un anno fa, per il mio compleanno, mia moglie – sapendo che lo desideravo fin da quando ero bambino – mi ha regalato un monopattino. Certo, non quello rosso con le ruote bianche che i miei amici cavalcavano al parco e che i miei genitori non mi hanno mai comprato. Questo era un modello snello, nero con piccole ruote aggressive, che masticava il terreno con la grinta di una moto, senza il disturbo del rombo del motore. Dapprima l’ho montato con circospezione, memore del mio primo approccio con uno skateboard di mio figlio (almeno due o tre decenni fa) che, al solo contatto con il mio piede destro, è schizzato via, mandandomi a gambe all’aria e provocandomi un brutto livido là dove non batte il sole.Questa volta, lontano dagli spettatori che sicuramente avrebbero riso a crepapelle nel vedermi capitombolare rovinosamente, con le gambe che un po’ tremavano per l’emozione, ho accelerato piano piano fino a quando l’equilibrio e la moderata velocità mi hanno garantito la stabilità. Sul pavé del giardino, formato di sampietrini gracidanti sotto le ruote, ho sperimentato un vibromassaggio dalla testa ai piedi, resistendo stoicamente fino al cancello di uscita. In strada, ho preferito percorrere il tratto in discesa con il monopattino a mano, perché non sapevo la capacità di frenata del piccolo mezzo, ma appena giunto al viale alberato, sono montato trionfalmente ed alla folle velocità di venticinque chilometri all’ora, con il vento che mi scompigliava i capelli (il capello, in realtà, ma è più carino far sembrare di avere una chioma da giovanotto) ho percorso tutto il tragitto che mi separava dalla piazza principale del paese. In quel periodo ancora non c’era stata l’esplosione dei monopattini come mezzo di trasporto alternativo, ed ero (me ne sono accorto dagli occhi sbalorditi dei passanti) l’unico nonno a cavalcare orgogliosamente quel pony di ferro, con lo sguardo verso il futuro e il dito pronto a premere furiosamente sul pulsante- a mano – del freno. Al ritorno, mentre percorrevo in senso inverso il viale, una persona che mi aveva visto arrivare da lontano, agitando le braccia mi gridò “Il casco! È pericoloso, metti il casco!”. Poco dopo mi fermai, mi voltai e con la mano, ringraziai l’ignoto passante. Memore di un rovinoso incidente, che mi era capitato oltre cinquanta anni fa, in cui – viaggiando in motorino senza casco – mi ero fracassato il cranio su di un muretto di Challand Saint Victor, scendendo a valle da Champoluc, mi precipitai a casa ed ordinai un casco protettivo, fino all’arrivo del quale non misi più piede sul monopattino. Per diversi mesi usai il monopattino per andare a fare la spesa, portando uno zaino in spalla con ciò che occorreva, e ringraziando ogni volta la mia sbadataggine per aver dimenticato qualcosa ed avere l’occasione di tornare a divertirmi sulle due ruote.Poi sono andato a Milano. Con la macchina che – per carità – pena una multa severissima, non può oltrepassare la barriera della zona B, sono stato costretto a caricare il monopattino nel bagagliaio e tentare la sorte nelle strade della grande metropoli. È stato in quell’occasione che ho potuto valutare quanto l’indignazione di molti e la difesa di pochi, abbiano condannato, senza riserve, un mezzo comodo, pratico e divertente, senza che lui, poveretto, ne abbia alcuna colpa. Milano è una città dalle strade complicate. Lastricate in alcuni punti, percorse da rotaie, cosparse di sampietrini, con asfalto incerto in altri. Percorrere quelle strade è una autentica tortura. Ho saltato come un canguro sui lastroni, temendo ad ogni balzo per la mia incolumità, sorpassato da ogni mezzo dotato di motore diesel, a benzina, elettrico, a pedali, con la baldanza di coloro che hanno acquisito una superiorità di fatto e te la fanno pesare. Non c’è stato un pezzetto di strada che abbia potuto percorrere serenamente, senza che qualche persona dal dito giocoso premesse sul clackson per avvisarmi della sua manifesta superiorità. Qualcuno si è pure divertito a schiacciarmi contro il bordo della strada. Avrei potuto salire sul marciapiede, come ho visto fare da qualche giovanotto, che si infilava tra le gambe dei passanti producendosi in fantasiose gimkane. Io non potevo. Portando sulle mie spalle il fardello della saggezza dovuta all’età, la necessità di impartire il buon esempio da bravo nonno, con lo sguardo severo di un padre di famiglia, ho continuato a saltare sui sassi fino a raggiungere la meta. Un po’ rintronato, ma vivo.All’inizio dell’estate, il monopattino ha avuto bisogno di una veloce riparazione, e l’ho affidato ad un meccanico che si è rivelato un gran cialtrone. Me l’ha restituito dopo quarantacinque giorni, più rotto di quando glie l’ho consegnato, e con un conto da pagare degno della riparazione di una macchina di lusso. Non ho più potuto usare il mio giocattolo per tutta l’estate ed in attesa di pezzi di ricambio ordinati in Cina, l’ho sistemato in soggiorno, a farmi compagnia nelle mie mattinate silenziose. Ciò che ho potuto notare, da ex utente, da ex motociclista e da automobilista con il divieto di accesso, è che il monopattino, poveretto, non c’entra niente con tutte le polemiche che si stanno facendo. I cretini che spesso lo conducono, sono gli stessi cretini che sgommano sulle moto rombanti, quelli che parcheggiano in doppia e tripla fila le lucide vetture dotate di un parco altoparlanti così feroci che nemmeno una discoteca… I cretini, insomma, quelli con la mamma sempre incinta. Certo, bisogna insegnare ai ragazzi a mettere il casco, perché a venticinque all’ora, se cadi, ti rompi la testa esattamente come a cinquanta. L’assicurazione è necessaria, perché quelli della mamma incinta, se balzano in mezzo alle gambe dei passanti, prima o poi ne falciano qualcuno, oppure scendendo baldanzosamente dai marciapiedi finiscono a baciare le fiancate delle macchine parcheggiate. Ma è la stessa cosa per quelli che vanno con le moto, sfrecciando nel traffico, superando colonne di vetture utilizzando la corsia opposta, pronti a rientrare (provocando spavento e incredibili frenate) quando sono arrivati a sei millimetri dal muso dalla vettura che procede in senso opposto. Ciò che occorre, è la buona educazione. Quella cosa che non si trova più in giro, che è diventata fuori moda. Sarebbe sufficiente, magari, insegnarla a scuola. I genitori delle nuove generazioni non la conoscono più bene, o forse non hanno il tempo per insegnarla ai loro figli. O ancora, intenti a sfrecciare con le loro moto potenti e con le macchine strombazzanti, non hanno proprio la voglia di perderci del tempo. E magari, ci vorrebbe più di qualche vigile attento, un buon vecchio “ghisa” con il fischietto, che faccia valere il proprio ruolo. Stanco di aspettare e ormai alla fine dell’estate, ieri ho comprato un nuovo monopattino. Meno aggressivo, più comodo, un po’ ammorbidito da gomme pneumatiche. E questa mattina ho dimenticato volentieri di comprare un paio di cose, per avere il piacere di tornare al negozio come da tradizione. Ma voi, se vi capita di vedere un vecchietto che trema su di un mezzo gommato in mezzo al traffico della metropoli, abbiate un po’ di compassione, magari lasciatelo passare senza pigiare sul pulsante del clackson: il nonno sta godendosi il suo giocattolo, che ha sognato per oltre sessant’anni e che ora, finalmente è riuscito a conquistare.

IPOCRISIA

C’è qualcosa che mi dà fastidio, e devo proprio dirlo. E’ un problema di ipocrisia, credo, ma lo trovo insopportabile.

Da qualche tempo, è entrato nella nostra famiglia un cane, uno splendido cucciolo meticcissimo, dallo sguardo dolce. E’ arrivato da un canile molto lontano, uno degli undici cuccioli abbandonati in un inverno freddissimo, all’aperto e al gelo. Un paio dei suoi fratelli non è riuscito a vivere nonostante le amorose cure dei volontari del canile. Lui è forte, deciso, guerriero. Lo abbiamo chiamato Magoo, per la sua capacità di sopravvivere nonostante tutto, incurante di ciò che lo circondava.

Magoo è nostro figlio, fratello, compagno di svago. Lo portiamo dovunque sia possibile, lo circondiamo di attenzioni, come è giusto fare. Questa estate abbiamo approfittato di una settimana di vacanza per andare in Puglia, giù, giù fino alla fine di ogni strada, per salutare e ringraziare le volontarie che lo hanno salvato. Abbiamo conosciuto Tiziana, una volontaria che – spesso da sola – si occupa e si preoccupa di un canile per animali abbandonati, sofferenti e spesso ammalati. Lo fa con un amore che raramente si incontra. Spesso è chiamata ad accogliere le bestiole che le segnalano sofferenti, ai bordi delle strade. Tiziana accudisce, Cura, dispensa dolcezza. Una mamma, una sorella, per tutti i cani in difficoltà.

Ecco, finita la premessa, arrivo al dunque. Magoo è un figlio, un fratello. Non un amico. E non mi piace che – ormai con indifferenza- si ripeta ovunque “i nostri amici a quattro zampe”. “I nostri amici pelosetti”. I nostri, i vostri amici… No, non amici. Parenti, piuttosto. Figli adottivi, amati come figli, curati e coccolati. Meglio dire, senza tanta ipocrisia, il vostro cane. “Qui non possono entrare i nostri amici a quattro zampe.” Ma che amici sono, quelli che teniamo fuori dalla porta? Indorare la pillola con il termine “amici” è soltanto una schifosa ipocrisia, una finta condivisione del disappunto. In molti locali pubblici, ormai, l’ingresso dei cani è consentito. Si chiede, per igiene, la museruola. Comprensibile anche se fastidiosa. Ma è tanto più fastidioso lasciare il cane in macchina, spesso al caldo.

Per essere amici, la premessa è una scelta. Io ti scelgo, tra l’umanità intera, per le nostre affinità e ti chiedo di essere mio amico. Tu mi scegli, perché mi stimi, ti piaccio, ti interessa condividere una parte della tua vita con me. Io scelgo te, tu scegli me. Magoo non ci ha scelto. E’ arrivato, spaventato, tremante dopo un viaggio di oltre un giorno in una gabbietta nel camioncino che portava molti come lui alle famiglie che li avevano adottati.

Un cane non sceglie me. Io ho scelto lui, ma lui questa scelta non l’ha fatta. Possiamo definirlo “il mio amico”? Direi proprio di no. Se avesse modo di parlare, potrebbe esprimere il suo parere. Magoo si esprime a fatti, salti, leccate, ogni genere di festa. Dire così, semplicemente “amico a quattro zampe” è decidere che noi siamo fatti per lui, che lui deve essere contento di noi, per quello che facciamo per lui. Troppo spesso, dietro il paravento della parola “amico” si nasconde invece un comportamento tutt’altro che amichevole, che a volte porta proprio all’abbandono sul ciglio di una strada.

Magoo è il mio settimo figlio. Sta accanto a me sul divano e ogni tanto apre un occhio per vedere da dove viene quel fastidioso ticchettio. Accertato che sono le mie dita sulla tastiera, chiude l’occhio e continua il suo sonno, sdraiato a pancia in su, sicuro che papà non gli farà mai del male.

UN ALTRO COMPLEANNO: SPUNTI, APPUNTI E DISAPPUNTI.

C’è poco da scherzare! Qui gli anni passano e il tempo scorre inesorabile. Con ciò che succede in giro, mi complimento con me stesso per essere arrivato, almeno, fin qui.

Ho scoperto che non ho tanto da raccontare, non mi piace più scrivere il mio parere, che si confonde inevitabilmente con un’enormità di altre opinioni di vario livello. Non serve a nessuno sapere come la penso. Ma, almeno in questa occasione, mi lascio un po’ andare, tanto per tenere in esercizio la mente, la memoria e le dita sulla tastiera.

Da un po’ di tempo, mi accorgo di sognare. Per me è una novità, perché non ho mai ricordato i miei sogni, tanto da pensare di non avere mai sognato. Quando mi alzo, durante la notte, per risolvere le mie personalissime questioni idrauliche, mi accorgo di avere ancora fresche in mente le sensazioni che derivano dai recenti sogni, e queste mi danno lo spunto per nuovi pensieri, per considerazioni che mi coinvolgono e – generalmente – non mi consentono di riprendere sonno fino al mattino.

L’altra notte, verso le quattro, avevo una strana sensazione di disagio. L’avevo avuta anche il mattino precedente, al risveglio all’alba. Una specie di ansia, di incompletezza, come di una colpa che emergeva per non aver fatto qualcosa.

Ho passato in rassegna i miei impegni, quelli precedenti e quelli ancora da realizzare, e non c’era proprio niente che non fosse stato fatto adeguatamente. L’età mi consente di rallentare, di svolgere le mie ridotte mansioni con calma e precisione, tanto da darmene una piacevole soddisfazione.

E allora, mi sono chiesto, perché questa sensazione di ansia? La conosco bene, ho vissuto con questa fastidiosa compagna per decine di anni, ma a quei tempi c’erano ragioni. Le mie mansioni di direzione mi portavano ad avere sempre delle sorprese da affrontare e risolvere in tempi brevissimi, rapporti personali che si incrinavano improvvisamente, da sanare per ritrovare una relativa stabilità. E poi grane legali, discussioni sui bilanci, pressioni da banche e tasse…

Ma ora che sono un tranquillo pensionato, a cosa devo questo stato ansioso?

Seduto a riflettere sul bordo della vasca da bagno, nella stanza silenziosa, ho cercato, pensato e ricostruito, ed alla fine sono giunto ad una conclusione. Si tratta della memoria dei passati sensi di colpa, che si riproponeva nella mia vita presente, stimolata dai sogni.

Posso affermare con assoluta certezza che la mia vita è stata costellata dai sensi di colpa, quelli che mi venivano addossati e quelli che io stesso ero in grado di infliggere a chi mi stava accanto.

Fin da piccolo, l’educazione che i miei genitori mi avevano impartito mi vincolava fortemente ad alcuni stereotipi, ed io raramente me ne accorgevo. Per me era diventata normalità il comportarmi come un piccolo Lord, conoscere le buone maniere ed applicarle quotidianamente, esprimermi e vestirmi in modo adeguato. Ma, a distanza di così tanti anni, mi accorgo che era nient’altro che una rappresentazione, in un teatro famigliare, esteso al mondo circostante, fuori dal quale mi sentivo a disagio. Lo facevo per compiacere i miei genitori, gli zii, le persone che loro frequentavano. Non ero affatto abituato a trasgredire, nemmeno quando ero solo con i miei amici. La prova del nove mi capitò durante il servizio militare, quando – tutti con la stessa divisa – non c’era modo di classificare le persone ‘a colpo d’occhio’ per ceto, istruzione o educazione, io ero considerato da tutti “il signorino”. E non facevo proprio niente per farlo pesare. Era la mia seconda pelle.

Se per caso mi comportavo in modo inadeguato, cresceva in me il senso di colpa, come per non aver fatto qualcosa di capitale importanza. Anche nella mia nuova famiglia, le colpe per aver fatto qualcosa o non averlo fatto, per aver detto o pensato fuori dallo schema originario (perché non hai fatto… invece di dire… ti ho detto di farlo, ma tu…) mi causava ansia. Imponevo ai miei figli un comportamento analogo al mio, le mie prime due figlie erano modelli di virtù quanto a educazione e comportamento. E quel senso di colpa, molte volte, si trasformava, si metteva l’abito elegante del “senso del dovere”, una pratica inespugnabile alla quale mi legavo in modo indissolubile. Il dovere sempre prima del piacere, di qualunque dovere si trattasse. Un sacrificio auto-inflitto per espiare dei peccati che avevano il sapore dell’improbabile. Guardando indietro, dalla mia posizione ormai comoda, mi accorgo che questo senso del dovere fosse una specie di giustificazione per le mie ansie. Mi consentiva di sostenere un ruolo e giustificarne l’impegno.

Poi tutto il mio mondo ha subito un forte ridimensionamento. Alla tenera età di cinquantasei anni, ho dovuto riprendere in mano la mia vita, dopo aver perso tutte le certezze economiche, famigliari alle quali mi ero adeguato. Ripartito da zero con una nuova compagna, ho potuto valutare nuovamente le mie priorità, ricavandone delle conclusioni che marciavano in senso diametralmente opposto a quelle che mi avevano condotto fino a quel punto. Ciò che ero stato per la mia mamma, per la mia prima moglie, per la mia vita precedente, non aveva più ragione di essere. La mia nuova compagna viveva in modo molto differente, aveva delle priorità per me impensabili. In sostanza, era libera da qualsiasi forma di condizionamento. E questo mi chiedeva di essere. “Io sono così, diceva. Se piaccio, bene, altrimenti poco importa. Non ho nessuna intenzione di vivere adeguandomi a degli schemi che non mi appartengono.”

Non è stato facile, all’inizio, comprendere quella vita e abbandonare quella precedente. Ma la sola presenza di Cornelia mi dava la forza di cambiare. Questo mi dava gioia, mi faceva stare bene. Non rappresentavo altro che me stesso, pregi e difetti senza colpe. Spariti gli abiti e le cravatte, le buone maniere ad ogni costo, la mia vita era tanto più facile. L’eloquio meno elegante ma sostanziale, mi sono reso conto che fino a quel momento, avevo tenuto le persone a distanza di sicurezza. Che le mie “buone maniere” creavano una barriera tra me e i miei interlocutori che certamente era vissuta come spocchia. Ho scoperto che era bello parlare con chiunque, mettere le persone a proprio agio, nel momento in cui mi accorgevo che erano imbarazzate. Soprattutto, se mi accorgevo di non essere in grado di fare qualcosa, non ne provavo né imbarazzo né vergogna. Non c’era più quel disagio da competizione persa. Semplicemente ne prendevo atto e andavo a cercare aiuto. In questo modo, con Cornelia, abbiamo costruito una nuova vita, fatta di gioia, di piccole e grandi soddisfazioni, senza ansia, sebbene in molte occasioni ce ne fosse stata veramente la ragione.

Così viviamo adesso. Serenamente affrontando i problemi di ogni giorno e chiudendo le nostre giornate con un sorriso, per aprirne delle nuove sorridendo.

A quanto pare, però, i miei sogni hanno un ruolo molto importante. La memoria di ciò che sono stato, torna inconsciamente e si ripropone nel momento in cui sono più vulnerabile. Ecco, quindi, cosa ho capito e scoperto, tra i vapori di una stanza da bagno. Ma questo non mi ha scosso nemmeno un po’.

Mi è bastato alzarmi dalla vasca, percorrere qualche metro, guardare la mia donna che dormiva sorridendo e capire che la vita, per quanto possa essere dura e difficile, è bella se si è capaci di sorridere. Buon compleanno a me, e un grazie di cuore a tutti voi per i vostri dolcissimi auguri.

SONO UN VIGLIACCO. FORSE.

Lo spaventoso assassinio del ragazzo a Colleferro mi ha turbato profondamente. A parte le ovvie ragioni provocate dallo sdegno e dall’impotenza, davanti a un episodio di brutalità inconcepibile,

una domanda mi ha assalito senza trovare risposta: se fossi stato presente, cosa avrei fatto? Come avrei reagito? Ho fatto prestissimo a condannare senza appello il gruppo di ragazzi che, pur essendo presenti al brutale assassinio, non si sono mossi, non hanno reagito. Ma io, proprio io, in un simile frangente, cosa avrei fatto?

Nella mia lunga notte insonne, ho ripassato a memoria tutti gli anni della mia vita, tutti gli episodi che avrebbero potuto avere un collegamento con la violenza, con la sopraffazione, con quegli istinti bestiali che si manifestano quando gli uomini, abbandonati i freni inibitori forniti da una giusta educazione, si trasformano nelle peggiori bestie assetate di sangue.

Ce ne sono stati, di episodi, che hanno costellato soprattutto la prima parte della mia vita. Il punto è principalmente uno: non conosco la violenza. Detta così, sembra una battuta. In realtà, grazie a una famiglia meravigliosa, ad una educazione ineccepibile, la violenza non è mai entrata nella mia vita, nelle consuetudini, negli approcci interpersonali. Semplicemente non ce n’era bisogno. I miei genitori si sono amati immensamente per oltre sessant’anni, nei loro sporadici litigi, non c’è mai stata una parola fuori posto, un gesto ostile. Le parole sono sempre bastate, tra loro e con noi figli. Certo, quando mi comportavo in modo scorretto, è volato qualche schiaffone, su di un braccio, mai forte, mai violento: quello era il massimo della deplorazione, per un ragazzo che crescendo aveva anche necessità di essere messo al suo posto.

Nemmeno con i miei fratelli è mai successo nulla, non ci siamo mai picchiati, insultati, offesi.

Ricordo un episodio di millant’anni fa, l’unica volta in cui mio fratello mi ma messo le mani addosso. Unica, capite? Avevo risposto male alla mamma, in modo irrispettoso, e lui non poteva tollerarlo. Mi ha dato uno spintone, mi ha scaraventato sul divano della sala e ha aggiunto un paio di schiaffi, piangendo. “Non rispondere mai più alla mamma in questo modo!” Mi ha intimato. Non è più successo, ed io ricordo quell’episodio dopo oltre sessant’anni, con un sentimento di commozione e riconoscenza.

A scuola, alle medie, era capitato più di una volta di aver qualcosa a che fare con dei bulletti che si affiancavano al gruppo dei ragazzini che accompagnavano le ragazze nel tragitto verso casa. Noi piccoli, facevamo gli spiritosi, ci piaceva fare dei dispetti soltanto per il piacere di essere inseguiti – soli – per i giardini dalle ragazzine che ci interessavano. Gli altri, i bulletti, non avevano altro modo di farsi notare se non cercando di umiliarci, crearci dei fastidi. La maggior parte delle volte, finiva a sputi ed io dovevo correre a casa a ripulirmi. Non essendo violento, non avevo nemmeno imparato a difendermi, e addirittura non sapevo sputare. Mi scansavo, mi lamentavo, ma tutto finiva là.

La violenza presuppone la conoscenza del dolore, la capacità di provocarlo e di evitarlo. E’ il dolore il motore che la fa sgorgare dalla sua putrida fonte. Fare del male per non subirlo. Dolore per ottenere la supremazia, per sopraffare.

L’unico episodio di violenza che ricordo, nel quale ho manifestato la mia rabbia con uno spintone e uno schiaffo, è stato intorno ai sedici anni. E tutto per colpa di un pacchetto di caramelle Sugus.

Ero stato in Svizzera, non ricordo per quale motivo, ed ero riuscito a comprare le mitiche caramelle che sono sempre state in cima ai miei desideri. Le trovavo soltanto là, e quando le acquistavo era per me come varcare la soglia di un paradiso alimentare. Le gustavo lentamente, le centellinavo. E quella volta, me le godevo. Uscito con Mario, amico di sempre, camminavamo in via Pagano, quando gli offersi una caramella. Sapevo che ne andava matto, come me, ed ero contento di fargliele assaggiare. Assaggiare, però, con lo stesso approccio delicato e denso di significato sacrificale che avevo adottato. Mariolino, però, non la pensava come me. Dopo la prima, ne aveva chiesto una seconda, che gli avevo dato un po’ titubante. Inghiottita in un attimo voleva la terza… impensabile! Glie l’ho negata fermamente. Santa Sugus dall’Elvezia non si concede così, senza una penitenza! Ma lui è stato più veloce, mi ha strappato il pacchetto dalle mani e spargendo tutto il contenuto sul marciapiede, ha velocemente scartato una caramella e l’ha ingoiata. Non ci ho visto più! Mentre ancora teneva in mano il frutto della sua sopraffazione (sacchetto vuoto, ormai) l’ho afferrato per il maglione e l’ho scaraventato sopra il cofano di una macchina in sosta. Lo sguardo di Mariolino, in quel frangente, è stato così sorpreso, spaventato, interrogativo, che ho subito mollato la presa e me ne sono andato senza nemmeno raccogliere le caramelle che erano cadute. Non ci siamo sentiti per qualche giorno, e poi, come succede ai grandi amici, tutto è ripreso come sempre. Ma non gli ho più offerto una Sugus. Mi è capitato, nel tempo, di acquistare dei sacchetti di quelle caramelle e di portarne anche a lui. Ma la mia colpa è rimasta incancellabile.

Da adulto, ho seguito gli insegnamenti dei miei genitori, educando i miei figli a temere il mio sguardo, non le mie mani o i pugni. Certo, è capitato qualche volta che ricorressi a qualche schiaffone energico sulle braccia del figlio ribelle, ma proprio quando mi tirava fuori dai gangheri, e poi-pentitissimo-andavo a dormire in preda ai rimorsi.

Penso che la violenza abbia molti genitori, che possa manifestarsi dopo aver ricevuto una forte preparazione nella partecipazione attiva o passiva ad eventi dolorosi. La rabbia, una delle fonti di violenza non necessariamente si sfoga in questa. Può accadere che – in mancanza di una consuetudine alla violenza – possa risolversi in fastidiosi mal di stomaco, in stati di eccitazione eccessivi, e nel mio caso, in un profondo sonno liberatorio. Mi arrabbio, poi mi siedo e mi addormento, dovunque mi capiti di essere. Al risveglio tutto è passato.

Mi è accaduto nel mio albergo, all’inizio della mia gestione, di dovermi occupare di persone che in modo illecito e fastidioso, stazionavano nel grande piazzale dell’hotel allo scopo di attendere delle prostitute che vi avevano fatto luogo di sosta ed adescamento. Non era servito a nulla spiegare che quel luogo non poteva essere un ritrovo per quel genere di commercio, io miravo ad ospitare famiglie in vacanza, e mai avrei potuto pensare di dovermi occupare della prostituzione. Nessuna parola, nessun discorso, nessuna cortese azione aveva fatto desistere né le signorine né tantomeno i loro clienti, che facevano lunghi caroselli per il piazzale gareggiando per accaparrarsi le grazie delle signore. Quando ho spiegato che avrei dovuto chiamare la forza pubblica per tutelare il mio interesse, gli uomini che si preoccupavano del commercio delle loro assistite hanno ritenuto di darmi una lezione, frantumando i vetri del ristorante, rompendo lampade e accessori dei piazzali.

Ho ritenuto giusto rivolgermi alle autorità locali, e la risposta è stata agghiacciante: noi chiudiamo un occhio, lei li chiuda tutti e due! Alla mia risposta “ma si prostituiscono, è reato!” mi risposero: “E chi lo dice? Ha visto per caso passare del denaro di mano mentre le signorine concedevano i loro favori?” No, evidentemente. “E allora stia attento perché potrebbero addirittura denunciarla!” Questo mi disse un comandante della stazione carabinieri. Intanto gli episodi di intolleranza aumentavano, così decisi di “cambiar parrocchia”. Mi rivolsi alla Questura, chiedendo un porto d’armi per sembrare un po’ più minaccioso. La cortese risposta fu “Caro signore, non basta avere una pistola, bisogna anche usarla o per lo meno saperla usare! Altrimenti cosa pensa che farebbe un malintenzionato vedendo che lei estrae un’arma?” E che ne sapevo, io? “Le spara!” Eh, pensavo che bastasse far vedere che ero armato… “Prenda un cane, è il mio consiglio fraterno!”

E da quel giorno, Dana, il mio cane da guardia, fu sempre al mio fianco e risolse per me ogni problema. Ancora una volta, non avevo risposto con la violenza alla violenza.

Non sono stati molti altri gli episodi in cui fui coinvolto in episodi violenti. Uno è accaduto in tempi relativamente recenti, quando ad una grande festa che si svolgeva nella discoteca dell’albergo, un improvviso movimento mi intrappolò nel centro del locale. Una lite tra ragazzi di etnie diverse, scaturita da un commento poco rispettoso nei confronti di una ragazza, immediatamente accese gli animi ed in pochi istanti fu il caos. Bottiglie rotte, spintoni, pugni. Io ero proprio in mezzo, non mi ero accorto di cosa stesse succedendo fino a quando la folla, ormai giunta al calor rosso, iniziò a scatenarsi. Ognuno picchiava, ognuno le prendeva. Volarono i miei occhiali, ricevetti un pugno sulla spalla. Non riuscivo proprio ad uscirne. Per fortuna, il mio angelo custode (che ancora non era mia moglie) intervenne con una forza impensabile, fendendo la folla e prelevandomi come un bambolotto mi spinse oltre una porta, in salvo. Da quel giorno cominciai a capire che forse avrei dovuto provvedere a prevenire la violenza invece che lasciare che si manifestasse.

Ma la prova del nove della mia inadeguatezza, l’ebbi qualche tempo dopo, transitando in macchina di notte sul viale che conduce alla mia casa. C’era una persona che camminava, sola, con passo incerto. Sembrava in difficoltà, forse aveva ecceduto nel bere. Poco più avanti c’era un uomo che gli andava incontro, con uno sguardo furioso. Io andavo piano, avevo messo la freccia attendendo che le macchine nella corsia opposta lasciassero libero il passaggio. Ci fu un breve scambio di parole tra i due, poi quello più grande, un energumeno alto e pesante, cominciò a picchiare sodo il piccoletto, dandogli gran pugni nella pancia, fino addirittura a sollevarlo da terra per farlo ricadere dolorante. Non sapevo cosa fare, sarei dovuto scendere? Sarei dovuto andare in aiuto a quel poveretto? Ma certo! E come avrei fatto? Restavo seduto al volante mentre il folle continuava a colpire. Ed io ero paralizzato dalla paura. Non riuscivo a muovere un dito. Vedere quel piccolo uomo subire tanta violenza mi aveva annichilito. Mi attaccai al clakson suonai continuamente, apersi il finestrino, gridai “lascialo stare!”. Il bruto sollevò il viso, guardò il lavoro che aveva fatto e se ne andò, lasciando il poveretto per terra. Nel mezzo della strada, con la freccia che lampeggiava ed il motore acceso, ero rimasto immobile e non avevo aiutato una persona che aveva bisogno. Sono un vigliacco? Forse. Il problema è che non so proprio cosa voglia dire picchiare qualcuno, per fargli male. Da un lato, questo mi crea problemi, sono inadeguato a certe situazioni. D’altro canto, proprio l’assenza di quella conoscenza del dolore conseguente alla violenza, mi ha spesso aiutato a trovare situazioni di facile conciliazione. Sono stato picchiato da due ladri che si erano introdotti in casa, ho cercato di difendermi aspettando che finissero. Ed in due occasioni, ho avuto a che fare con delle persone appartenenti alla mafia, quella vera. Mi avevano detto che erano pericolosi, ma non ne avevo affatto paura. Ho parlato con loro, ho scherzato, ho ripianato ogni problema risolvendo addirittura con una stretta di mano. “Per litigare, bisogna essere almeno in due, e io non ci sto. Non si riesce a picchiare qualcuno che tiene strettamente le mani in tasca” diceva papà. Ed io affondavo le mani fino al gomito.

Oh, oh cavallo, oh oh…

Da quando ho sentito la notizia di Berlusconi che ha contratto il virus del Covid 19, una canzone si è intrufolata nelle spire del mio cervello e continua a ripetersi all’infinito. Martellante e ossessiva si impone su qualunque altro suono, al solo pronunciare il suo nome, riprende battente.. oh oh, cavallo, oh oh.

Ridere, ridere, ridere ancora,

Ora la guerra paura non fa,

Brucian nel fuoco le divise la sera,

Brucia nella gola vino a sazietà,

Musica di tamburelli fino all’aurora,

Il soldato che tutta la notte ballò

Vide tra la folla quella nera signora,

Vide che cercava lui e si spaventò

Salvami, salvami, grande sovrano,

Fammi fuggire, fuggire di qua,

Alla parata lei mi stava vicino,

E mi guardava con malignità

Dategli, dategli un animale,

Figlio del lampo, degno di un re,

Presto, più presto perché possa scappare,

Dategli la bestia più veloce che c’è

corri cavallo, corri ti prego

Fino a Samarcanda io ti guiderò,

Non ti fermare, vola ti prego

Corri come il vento che mi salverò

Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh, cavallo, oh oh

Fiumi poi campi, poi l’alba era viola,

Bianche le torri che infine toccò,

Ma c’era su la porta quella nera signora

Stanco di fuggire la sua testa chinò:

Eri fra la gente nella capitale,

So che mi guardavi con malignità,

Son scappato in mezzo ai grillie alle cicale,

Son scappato via ma ti ritrovo qua!

Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato

Io non ti guardavo con malignità,

Era solamente uno sguardo stupito,

Cosa ci facevi l’altro ieri là?

T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda

Eri lontanissimo due giorni fa,

Ho temuto che per ascoltar la banda

Non facessi in tempo ad arrivare qua

Non è poi così lontana Samarcanda,

Corri cavallo, corri di là

Ho cantato insieme a te tutta la notte

Corri come il vento che ci arriverà

Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo oh oh

Oh Berlusconi, dove pensavi di fuggire? Nizza, nel tuo regno dorato? La Sardegna con le tue ville e le tue amicizie? No, non è stato sufficiente. Oh, oh, cavallo…

Gli uomini si comprano, le sentenze, i palazzi, le Società… ma il destino no, quello non lo puoi comprare.

Benvenuto in mezzo a noi, comuni mortali, che guardiamo in faccia il nostro destino proprio come fai tu, ora.

E, nell’augurarti una pronta e salva ripresa, vorrei chiudere con una breve poesia, che mi era venuta in mente quando, da ragazzo, avevo visitato la reggia di Versailles, ed ero al cospetto… del gabinetto del re.

“Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si siedono, son tutti come me!

Ben seduto tra noi!

LA CORRETTEZZA: RARA MERCE, MAI DI SCAMBIO.

Questa ve la devo proprio raccontare.

La scorsa settimana, durante il mio breve periodo di vacanza, ero nel terrazzo della villetta che avevamo affittato per le vacanze e consumavo, con tutta la famiglia, la colazione del mattino. Al mare, in vista di una lunga sosta in spiaggia, la colazione deve essere abbondante, per poter far slittare il pasto principale alla sera. Così sulla tavola c’erano bevande, latte, biscotti, brioches e così via. Mentre chiacchieravamo tranquillamente con il figlio grande sui programmi della giornata, lo vedo abbassare lo sguardo su qualcosa che teneva in mano. Era un biscotto, parzialmente intinto nel latte, sul quale spiccava in bella vista, incastonato nell’impasto, un filo di plastica animato, piccolo come quelli che servono per chiudere le confezioni. Ovviamente ha evitato di mettere in bocca il biscotto e me l’ha mostrato. Ho pensato: ma guarda che sorprese, se l’avesse ingerito sarebbe stato pericoloso!

Così ho creduto utile fare una fotografia al biscotto incriminato, poi alla confezione dalla quale era stato tratto, poi ai vari codici e mandare tutto insieme alla Lidl, sede italiana, per informare dell’accaduto e chiedere di avvisare il produttore di fare maggiori controlli. Tutto qui, non avevo nessuna voglia di fare polemiche. Ho pensato che in un periodo così difficile, forse sarebbe stato gradito un suggerimento su una migliore attenzione piuttosto che una denuncia.

Forte della mia bontà d’animo e trionfante per la mia magnanimità, ho scritto direttamente dallo smartphone sul sito aziendale, una cortese lettera a Lidl. Allegate foto, prego accusare ricevuta.

Il giorno successivo ho ricevuto una cortese mail che mi ringraziava per la segnalazione. Mi assicuravano che era già in gestione e che avrei dovuto aspettare per avere una risposta. Per cortesia, però, invii le sue prossime richieste al “Servizio Clienti”. Certo, eseguirò.

Mail successiva: Grazie per aver mostrato interesse nei nostri prodotti. Le chiediamo gentilmente di inviarci :il codice a barre (codice EAN); foto del corpo estraneo rinvenuto nel prodotto; punto vendita Lidl dove è stato effettuato l’acquisto.

Rispondo: Spettabilissima, vi invio in allegato l’ingrandimento fotografico del corpo estraneo (visto così sembrava la grande muraglia cinese), la fotografia del codice a barre e l’indirizzo del negozio dove il sacchetto è stato acquistato. Cordialmente.

Ancora un paio di giorni e arriva la successiva mail. Grazie per aver mostrato interesse nei nostri prodotti ecc. e poi: Le chiediamo di fornirci cortesemente i dati relativi al numero di lotto e scadenza del prodotto , nonchè del codice EAN numerico riportato accanto al codice a barre.

La preghiamo inoltre di informarci se possiede ancora il corpo estraneo e se sia disponibile a resituirlo presso il punto vendita che vorrà indicarci.

Rispondo immediatamente (beate vacanze che lasciano il tempo libero per questi graziosi scambi di corrispondenza!) Spettabili (un po’ meno) signori Lidl, il lotto relativo alla confezione dalla quale ho preso il biscotto è L00707N scad. 31/07/21, come potete constatare dalla foto che vi allego e che avevo già inviato. Non ho trovato nessun codice EAN vicino al codice a barre, come potete constatare dalla seconda foto. Non ho conservato il pezzetto di plastica né il biscotto che lo aveva inglobato, perché era bagnato. ( e aggiungo ora, di caffelatte (Lidl, ovviamente), e cosparso di formiche (non Lidl, probabilmente). Poi con fairplay quasi britannico, chiudo: Vorrei farvi presente che la mia era una semplice richiesta di maggiore attenzione, non di un procedimento nei confronti del produttore. Sono cose che possono capitare e credo che il produttore possa gradire una segnalazione senza ombra di polemica. Io non desidero niente, non chiedo niente. Mi limito ad una cordiale segnalazione.

Con i migliori saluti

Pensavate che fosse finita? Illusi! Ecco la successiva mail:

La ringraziamo per il riscontro fornito.

Le chiediamo di inviarci una foto in cui si veda il prodotto intero e quella della confezione in cui si veda il tipo di prodotto illustrato.

E porgono gli immancabili cordiali saluti.

Ma davvero? Ma dai? E tutto quello che vi ho mandato fino ad ora, lo avete usato per farne carta da fuoco? (prego gradire l’eleganza verbale).

Ora, amici miei, voi mi conoscete da tanti anni, sapete che sono un tipo mite, se posso aiutare qualcuno lo faccio volentieri, ma sotto sotto sono uno che non ama troppo essere menato per il naso. (ma quanto sono elegante, oggi!) E così non mi resta che rispondere:

Spett.le Lidl, (ma sarà ancora spettabile?)

vi invio per l’ultima volta le fotografie relative al pacco dei biscotti, al particolare del biscotto contenente il pezzetto di plastica animato, che vi ho già inviato altre quattro volte. Ho la vaga sensazione che vi stiate prendendo gioco di me, visto che continuate a scrivermi le stesse cose.

Mi dispiace, credevo di avere a che fare con persone più interessate.

Invierò il mio suggerimento direttamente alla casa produttrice e ai NAS, per i riscontri del caso.

Distinti saluti

Terminata la mia prodigiosa dose di pazienza, davanti a un comportamento così inutilmente fastidioso, cosa altro avrei dovuto fare? Dal canto mio, pensavo che Lidl fosse diversa, quella prestanza teutonica che aleggia sopra ogni negozio, quel rigore operativo che ne hanno fatto un tratto distintivo negli anni, sospetto che abbiano lasciato il posto ad un più comodo “lasciami in pace, moscerino, che ho da fare!”. Ma anche i moscerini, quando li attacchi, si arrabbiano, non vi pare?